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La nave dei folli era un'istituzione medievale frequente nell'Europa centrale e a Venezia in cui i folli, durante il carnevale, venivano messi su una barca lasciata alla corrente di un fiume o del mare. La nave dei folli era un rituale carnascialesco di emarginazione ma nel quale era insito anche il riconoscere la diversità del folle. Al contrario del manicomio, che nella sua staticità e con tutta la sua ineluttabilità rievoca l'idea di un buco nero, capace di catturare persino la luce, la nave dei folli riconduce a un'idea di viaggio senza ritorno, a traiettorie che esulano da ogni idea di razionalità e di senso comune. Oggi non si parla più di follia ma di malattia mentale. La malattia è qualcosa che attiene all'individuo e non coinvolge necessariamente la comunità e la risposta non può che essere medicalizzante. Riconsiderare la follia non come una malattia né come un derivato sociale, ma come una dimensione dolorosa dell'anima ci permette di rileggere i miti e persino la storia della nostra cultura da un punto di vista diverso e originale. Così ci troviamo di fronte a questo paradosso: non possiamo parlare della follia se non accostandola al suo opposto: la ragione. Infine, siamo tornati a esporre una tematica legata al campo clinico, la cronicità, e un tema, la passione, che devono tornare a essere oggetto di speculazione e che non possono mancare nella formazione di qualsiasi professionista che operi in ambito psicologico.